Gabriele Salvatori e l'evoluzione dell'azienda
"Avrei potuto scoprire che detestavo quel mondo, e invece me ne sono innamorato"
Dopo le riflessioni sulle origini di Salvatori e sul fondamentale apporto del padre per lo sviluppo, l’amministratore delegato Gabriele Salvatori riflette sulla storia più recente dell’azienda. Una storia che racconta di come sia importante preservare e sviluppare il patrimonio che ha permesso a Salvatori di diventare un brand di design a tutti gli effetti.
Sono stato coinvolto all’interno dell’azienda fin dalla tenera età: trascorrevo le estati in fabbrica e, poiché ero stato mandato in Inghilterra per studiare l’inglese, accompagnavo i miei genitori nelle esposizioni che si svolgevano all’estero. I miei genitori sono stati molto lungimiranti perché avrei potuto scoprire che detestavo quel mondo, e invece me ne sono innamorato.
Sono stato uno degli ultimi in Italia a ricevere la chiamata per il servizio militare. Quando finì mancavano solo pochi mesi per finire l’università, ma sentivo che era una perdita di tempo. Sapevo che volevo entrare ufficialmente in azienda e così, a 24 anni, mi sono ritirato e ho iniziato a gestire il team delle vendite.
Durante i numerosi viaggi mi dovevo interfacciare con i clienti ed è in questo modo che ho sviluppato una vera e propria passione per il design. Ho iniziato col suggerire alcune idee a mio padre: pietre naturali e finiture che non avevo visto da nessun’altra parte. Così decidemmo di realizzare alcuni prototipi e, nel 2003, lanciammo Bamboo, la nostra prima superficie con finitura tridimensionale. Il primo anno ne vendemmo pochissimo, ma poi esplose fino a diventare l’attuale best seller.
In seguito alla ideazione di Bamboo ho cominciato ad interessarmi alla sostenibilità. Nel corso degli anni ho sviluppato il progetto che sarebbe diventato Lithoverde®, la prima pietra riciclata al mondo. In quel periodo, fu anche presa la decisione di prendere più seriamente il mercato internazionale: aprimmo uno showroom a Zurigo e la seconda tappa fu Milano con l’obiettivo di entrare nel mondo del design.
Fu in quell’anno, nel 2007, che siamo diventati una delle poche aziende – e sicuramente l’unico brand che lavora con la pietra – a partecipare al Fuori Salone. Forte di quest’esperienza decisi di approcciare l’architetto britannico John Pawson per collaborare a un progetto per il Salone del Mobile nel 2010. Non potevo credere alle mie orecchie quando mi disse di sì: ero in paradiso. Il design della sua House of Stone fu riconosciuto come “Miglior installazione dell’anno”.
Subito dopo Pawson, sono riuscito a organizzare un incontro con il designer Piero Lissoni. La connessione che si creò fu istantanea. Ho apprezzato il suo approccio calmo e sofisticato al design e lui di rimando ha apprezzato il mio entusiasmo per ciò che stavo facendo. Quella con Lissoni si è trasformata in una partnership consolidata, grazie alla quale abbiamo sviluppato una vasta gamma di prodotti, tra cui un vassoio, una libreria e una linea di tavoli che, rastremati a soli cinque millimetri ai bordi, hanno spinto al limite la nostra capacità ingegneristica.
Queste esperienze sono state formative e hanno letteralmente gettato le basi per il nostro presente. Da Lissoni in poi abbiamo lavorato con designer affermati come Rodolfo Dordoni e Kengo Kuma, e con designer giovani e talentuosi, come le collaborazioni che abbiamo realizzato con Elisa Ossino e Franz Siccardi. L’importante per noi è stato da sempre lavorare con chi condivideva la nostra cultura e i nostri valori. Non lavoreremmo mai con qualcuno solo perché ha un nome famoso. Le persone con cui entriamo in contatto devono condividere lo spirito di innovazione che mio padre ha impresso nel DNA dell’azienda. Più recentemente, ad esempio, abbiamo collaborato con Vincent Van Duysen a una splendida linea di accessori per la scrivania: portapenne, fermacarte, portacandele, utilizzando la pietra e, per la prima volta, la pelle.
Anche se la società è in continua evoluzione, ho sempre cercato di assicurarmi che non perdessimo di vista chi siamo e cosa rappresentiamo. Quel senso di responsabilità che proviene dal dirigere un’azienda di famiglia, è per me un grande stimolo che sogno di consegnare un giorno alla prossima generazione. Lavoro sapendo che ho fatto la mia piccola parte per innovare il mio settore, e spero che chi mi succederà proseguirà sulla stessa strada.